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Ritratti ghisleriani – Il Cesare Correnti di Carlo Dossi
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“Difficilissimo ottenere dallo stesso Correnti notizie sulla sua vita. Non appena si accorge che lo si vuol pubblicare, sfugge come una anguilla. Gli è come fare il ritratto ad un bimbo che non vuole star fermo”, scrive Carlo Dossi. I suoi appunti però, poi raccolti nelle monumentali Note azzurre, sembrano voler inseguire Cesare Correnti in tanta volatilità, se non addirittura voler affrontare il letterato milanese – di oltre trent’anni maggiore di Dossi, entrato al Collegio Ghislieri nel 1833 per studiarvi Giurisprudenza e due volte Ministro dell’Istruzione, sotto Ricasoli e sotto Lanza – come se si trattasse di una montagna al cui centro si può arrivare solo tentando di scavare gallerie da ogni lato. Correnti compare infatti in settantuno delle Note azzurre, da quelle giovanili ai ricordi della vecchiaia. Assieme a Carlo Cattaneo e Tranquillo Cremona costituisce una sorta di basso continuo degli appunti di Dossi; più di lui, vengono citati solo Manzoni, Paolo Gorini e soprattutto Giuseppe Rovani.

L’atteggiamento di Dossi nei confronti di Correnti è ambivalente. Legato a lui da amicizia talvolta contegnosa (“Da Correnti passo per uno che cela la propria stoltezza in un implacabil silenzio”), col passare degli anni non manca di cedere talora alla rabbia. “Non vuole amici, ma servitori”, scrive in una nota sprezzante, “non riescono con lui che le persone sfacciate e avariate”; lo definisce “letterato esimio, uomo volgare”, “umile, strisciante coi potenti, burbanzosi cogli inferiori”, e poi lo esorta: “Ci vuol altro, o Cesare ambrosiano, che coniar belle frasi; onestà ci vuole”. Salvo poi, nel 1900, includere Correnti nel risicato elenco con cui decora la considerazione che “tutti tutti i miei veri grandi amici sono al di là. Spiriti eletti e immortali mi circondano, mi parlano, mi abbracciano”.

In Correnti Dossi vede un doppio, aspetto che lo aveva sempre affascinato se non ossessionato. “Io e Correnti”, scrive nel 1879, “ci troviamo nello stesso stato d’animo reciprocamente. Desiderandoci, cerchiamo evitarci. Siamo come due schermidori – noti l’un l’altro per fama, i quali trovandosi per la prima volta l’uno di fronte all’altro si tasteggiano prudentemente coi ferri”. E poi ancora: “Trattare con Correnti non è cosa facile. Egli ha il brutto vezzo (e l’ho io pure) di dir nero mentre pensa bianco”; “piglia un gusto matto a far sudare e arrossire, con le sue contraddizioni e i suoi scatti improvvisi, la folla adulatrice”; “ha il mio brutto vezzo di sostenere tesi insostenibili pel gusto solo di contradire, non solamente al pensiero altrui, ma al proprio”. La rabbia di Dossi nei confronti di Correnti, si potrebbe dire, era quella di chi scorge la propria immagine riflessa in uno specchio.

Se Dossi si era serbato sempre macilento, Correnti aveva attraversato una trasformazione fisica che sembrava metaforica della propria evoluzione intellettuale: da letterato idealista, animatore delle Cinque Giornate, a parlamentare e ministro ben inchiavardato nel sistema politico del neonato Regno d’Italia. “Il panciuto Correnti, da giovane, era magrissimo”, scrive Dossi. “Recavasi spesso da Pavia a Milano a piedi, e camminava alle volte dormendo sorretto al braccio dei compagni. Un dì essendo stato raggiunto da una vettura e i suoi amici salendovi, egli preferì di continuare la via a piedi, scommettendo che sarebbe arrivato a Milano prima della vettura. E difatti ci arrivò, ma quasi spedato”. Al Louvre “nella sala delle faentine, dinanzi una bacheca, fu colto da un sonno improvviso, barcollò, e se non c’era Govi a trattenerlo, sfondava la bacheca”. Una volta a Roma, tuttavia, “si ferma non di rado dinanzi alle veline dei salsamentari a farci delle meditazioni gastronomiche”, e diventa “tale per natura che, mentre rifiuterebbe anche un milione che gli fosse offerto per compiere un’azione meno che onesta, si lascerebbe indurre ad una grossa indelicatezza dal dono di un tartufo”.

Lo stesso Correnti sembrava non capacitarsi della trasformazione – del proprio animo, più che del corpo. Dossi riporta una sua confidenza: “Dopo il 1859 io mi sono ingolfato in un abisso che m’ha perduto. Ho rinunciato alla mia carriera di vocazione nella quale avrei solo potuto raccogliere duraturi allori, la letteraria”. Dossi stesso non sembra perdonarlo. Lo inchioda alla notizia che, ormai affermato “rifiutò jeri di far parte della commissione tale, appartenendo già a 22 altre. (!)”; da scrittore lo vede trasformato in “prefazionista per eccellenza”, che “dice delle belle cose ma anche delle insigni sciocchezze”; svela che da politico, “stretto dal bisogno a fare il letterato a giornata, scrisse spesso anche discorsi, che poi si dovevano improvvisare da taluni fra i suoi colleghi di scarsa intelligenza”. Più miratamente, Dossi non amava le reticenze di Correnti nella militanza risorgimentale, e in particolar modo il suo non volere Roma capitale “perché seguace dell’illusione manzoniana della conciliazione fra il cattolicismo, e il patriotismo”; ma forse era solo amor di contraddizione, come quando pur sedendo all’estrema sinistra del Parlamento sabaudo si schierò a favore della guerra di Crimea. “I suoi amici gli davano del traditore”, annota Dossi, “e Depretis, che stavagli proprio dietro, gli gridava all’orecchio ‘fanciullaggini’”. Ancora: “Carattere molle, pieno di dubbi e di piccole vigliaccherie, non era ben visto da Cattaneo e da Mazzini, due lame che non si piegavano”. Dossi gli ascrive di essersi recato a Venezia per sostenere la repubblica su incarico di Mazzini ma di essersi dato “a caldeggiare la causa dell’annessione al Piemonte monarchico”, e lo accusa di essere “sempre devoto al principio dell’autorità”.

Politicamente ondivago, il Correnti delle Note azzurre non è per questo meno tormentato. Ottenuta da Cavour in persona la possibilità di diventare cittadino sabaudo, non ottemperò mai alle formalità richieste. Dopo il primo discorso parlamentare, nel 1852, non prese la parola per i due anni successivi. Dossi racconta che nel 1867, dopo aver sempre votato a favore, Correnti votò contro Menabrea e il governo cadde per un solo voto, il suo: “Ne restò così sorpreso, confuso, indispettito e venne a una tale agitazione d’animo – come se non il Ministero ma l’intero mondo fosse caduto – che… – 9 mesi dopo, sua moglie partorì l’Adelaidina”.

Questo tratto di “Correnti, incoerentissimo” – “famoso per la sua perpetua indecisione”, “di que’ letterati che, per amore delle belle frasi, mutano le idee” – si estendeva a vertici che nulla avevano a che fare con la politica. Dossi racconta che una mattina Correnti fece chiamare e rimandar via una carrozza più volte fino a che, decisosi a salirvi, disse al cocchiere: “Va’ adagio, non voglio arrivare”. In più era sbadato, tanto da essersi di fatto costruito, “non per tristizia, ma per smemorataggine”, una biblioteca privata di libri che aveva dimenticato di restituire a Brera”.  Un giorno, partendo per Roma con la famiglia, si accorse di aver dimenticato il denaro, pur essendo certo di disporre di un biglietto da mille lire; riuscì in extremis a recuperarne cinquecento con una colletta. Ritrovò le mille lire al ritorno, a mo’ di segnalibro nel volume che stava leggendo prima di partire.

Soprattutto, Correnti era “l’uomo del più completo disordine”. Diventato ministro, si impossessò della gigantesca scrivania del predecesssore e “fu felice di aver trovato il luogo dove sgravarsi delle centinaja di lettere che gl’ingombravano le tasche. In que’ cassetti furono dunque cacciate alla rinfusa le lettere, di mano a mano che le riceveva insieme a stampati, minute, zolfanelli, corda”. Il suo successore “dovette sudare una settimana a estrarre carta da quel magazzino. Vi furono trovati i fili di molti affari urgenti che s’erano perduti di vista” e, come tali, “le cause delle molte querele che avevano concorso a far cadere Correnti”. Dossi conclude filosoficamente che, “se questo egregio ma distrattissimo avesse avuto davanti non un saccoccione di legno, complice delle sue trascurataggini, ma un tavolino piccolo e senza cassetti che lo avesse obbligato a dare quotidianamente passo, tanto per sgombrarlo, a tutti gli affari che vi si accumulavano, sarebbe forse rimasto maggior tempo al potere”.

Dossi fu anche percorso dalla tentazione di curare un’edizione delle opere complete di Correnti, o almeno pensare di farlo, dato che “anzitutto però occorrerebbe raccogliere tutti isuoi scritti, e qui si presenta una grave difficoltà, perché Correnti non possiede né copia a stampa né minute della più parte dei suoi scritti e non ne ha pure nota”. Si spinge tuttavia spinge a ipotizzare un’edizione in nove volumi più uno di indici, dagli “Scritti letterari” a “Versi (i meno brutti”), con l’aggiunta a latere di “un libriccino coi passi scelti delle sue opere” da intitolarsi Gemme letterarie. Il meglio di Correnti viene individuato da Dossi nel Vesta Verde, giornale che “fu, a’ suoi tempi, pubblicazione originalissima” e “quasi tutto redatto da Correnti” fino alla chiusura nel 1859. “Alcuni articoli del Vesta Verde gli costarono notti intere. Si coricava all’alba, e il giorno appresso dal suo volto lieto la moglie capiva quando l’articolo gli era riuscito bene”.

L’edizione corrente delle Note azzurre di Carlo Dossi, a cura di Dante Isella, è stata ripubblicata da Adelphi nel 2010. Su Carlo Dossi, nel suo rapporto con Cesare Lombroso, è incentrato l’ultimo saggio di due Alunni del Collegio Ghislieri: Ombre nella mente di Paolo Mazzarello e Maria Antonietta Grignani(Bollati Boringhieri, 2020), a cui Ghislieri.it ha dedicato una rilettura. Le ultime puntate dei Ritratti ghisleriani sono state dedicate a Ezio Vanoni, Domenico Frassi, Luigi Credaro e Ferruccio Ghinaglia.